Paolo Scquizzato
«Ama la goccia che fa traboccare il vaso. È nascosto lì dentro ogni bel cambiamento» (Gemma Gemmiti).
In questi giorni amari, senza essere avari, ho imparato ad amare la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dinanzi a episodi di una tristezza infinita, ho cercato di abbracciarli ed accoglierli consapevole che proprio in questo modo è possibile intraprendere percorsi capaci di traghettarci dalla religione alla fede e maturare in un cammino di adultità nella fede.
Siamo stati spettatori di immagini che non fossero state documentate e rilanciate migliaia di volte sui social, parrebbero episodi provenienti da epoche lontane e oscure, proprie di una religione oscura e lontana. Si è visto preti portare a spasso statue di madonne lacrimogene e santi ritenuti efficaci contro morbi e pestilenze; porporati brandire ostensori come fossero armi benedicendo piazze deserte; e – dall’alto di un elicottero – un prete col Santissimo impartire benedizioni sentendosi come l’arcangelo Raffaele 2.0.
Scene di una religione che interroga, che lascia sgomenti. Che idea di Dio ci portiamo dentro; quale Dio si nasconde dietro queste invocazioni, a questi gesti?
«Dimmi chi è il tuo Dio e ti dirò come preghi». Certo, deve essere così.
Devo essere sincero. In questo momento così oscuro, così duro – mentre scrivo siamo all’apice della pandemia, con i mezzi d’informazione che sciorinano quotidianamente un numero impressionante di morti – mi sono chiesto se veramente la donna e l’uomo di oggi possono concepire un dio capace di fermare il male con “la potenza del suo braccio”; mi sono chiesto sinceramente: esistesse effettivamente un dio del genere, perché la medesima mano non ha impedito che tutto ciò accadesse? E se il medesimo dio avesse anche impedito – come per miracolo – sempre col suo braccio potente l’inizio della devastazione pandemica, perché non è intervenuto pure a debellare la piaga impietosa del morbillo che colpisce ogni anno 140.000 persone tra i più poveri dei poveri, soprattutto bambini sotto i cinque anni? E se anche cessassero – come per miracolo – tutti i morti per morbillo, perché il buon dio non inter viene per impedire che ogni dodici secondi un bimbo muoia di fame come sta accadendo proprio ora mentre io me ne sto qui a scrivere?
Quale dio potrà mai essere quello che ha bisogno di essere invocato per agire? Un dio distratto? Un dio che brama che le sue creature, finalmente prostrate nella polvere, svuotate dal dolore si accorgano dell’esistenza di un cielo cui rivolgersi gementi e piangenti in questa valle di lacrime?
Mi domando: può richiedere un prezzo così alto l’intervento di un dio?
No. Io credo di no.
Ho amato quell’uomo solo, claudicante, che in un tardo pomeriggio di pioggia, si ferma e sta in silenzio. Sta, perché il verbo dell’amore è stare, e in silenzio essendo questo l’ultimo nome di Dio, come ricorda il mistico tedesco Meister Eckhart. E tra le braccia di marmo del Bernini, che non abbracciano più nessuno, quell’uomo venuto dalla fine del mondo ha invitato a ripensare la preghiera e forse a dirci che la sua forma più alta è quella che finalmente tace per poter accogliere non ciò che l’uomo domanda ma lo Spirito, promessa di vita nuova.
Ho amato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E mi accorgo che esiste un cristianesimo come fede vissuta, che anche se lentamente va affrancandosi dalla mera religione rivestita da neo-paganesimo. E che esistono donne e uomini che non perdono occasione, attraverso lo studio attento e serio e una preghiera matura, di presentare un Dio “altro”, infinitamente altro e oltre il riduzionismo di cui si è dato spettacolo in questo tempo e, in fondo, ogni qualvolta si attraversa la grande prova. E infine che esiste una teologia intenta a “salvare” Dio dall’essere traballante stampella alle umane insufficienze e immenso tappabuchi delle nostre falle esistenziali.
Così mi son ritrovato a scrivere una lettera ad alcuni amici ed amiche, sparsi per l’Italia, da Bolzano a Palermo, chiedendo loro un breve contributo sulla preghiera, su come poter concepire la preghiera in epoca di Covid-19 e cosa voglia dire pregare il proprio Dio in un momento buio come questo.
Pian piano è andato a delinearsi un mosaico, fatto di piccole tessere, ciascuna con la sua ricchezza, di autori e autrici profondamente sinceri e di una sincerità a tratti commovente. Un mosaico che ci parla del fatto che siamo tutti profondamente fragili, non per colpa originaria, ma semplicemente perché in tensione verso il compimento di sé attraverso la propria fatica ascensionale. Una fragilità che ha deturpato questa creazione di cui facciamo parte, usata e abusata, e che ora sta chiedendo il conto, salatissimo.
Una fragilità consapevole che da quando l’essere umano sa di essere tale, non può che alzare lo sguardo dinanzi a ciò che lo supera e sovrasta.
Preghiera viene da prex-prece, atto proprio di colei e colui che si sente ontologicamente precario. Ma che in questa sua precarietà e fragilità è chiamato a maturare, a improntare stili di vita alternativi, capaci di fecondità e cura a tutti i livelli; a convertirsi, cioè a cambiare testa, mente, cuore per relazionarsi con la creazione, e quindi la vita, in modo responsabile, creativo, vivificante.
Breve Storia
“La Tenda dell’incontro Giovanni Giorgis” è una piccola associazione, creata da don Giorgis nel 1991 per diffondere la conoscenza della Bibbia.
Docente di Sacra Scrittura, prima a Mondovì, poi a Torino, don Giorgis era un instancabile ricercatore ed insieme un uomo intensamente partecipe della vita e dei problemi del nostro tempo. Per lui la lettura seria, documentata, attenta delle Scritture non cessava mai di interagire con la vita, di interrogarla e di lasciarsene interrogare.
Dopo la sua morte alcune persone hanno raccolto il suo insistente invito a continuare l’esperienza della Tenda.
L’associazione è così diventata “La Tenda dell’incontro Giovanni Giorgis”. Essa organizza ogni anno sei incontri – cinque domeniche e un sabato – su temi che si radicano nei libri della Bibbia, ebraica e cristiana.
Per fare questo, si avvale della competenza di persone preparate (teologi e teologhe), capaci di portare avanti lo stile che caratterizzava don Giorgis.
La sede dell’associazione, in cui si svolgono quasi tutti gli incontri, è a Peveragno-Madonna dei Boschi (Cn), proprio di fianco ad un piccolo santuario del 1700, nella casa che don Giorgis ha voluto lasciare in eredità all’associazione.
Suggestivo il nome: “TENDA”! La tenda è una struttura semplice, agile, piccola, ma che si può allargare, spostandone i paletti – come diceva don Giorgis – per fare posto ad altri, in un clima di amicizia e libertà.
La “Tenda dell’Incontro” è sempre stata e vuol continuare ad essere un ambiente aperto, che accoglie persone provenienti da luoghi e da esperienze diverse e che cercano di essere, o forse meglio di diventare, cristiani oggi. Essa si rivolge a chi non considera la fede come un dato acquisito una volta per tutte, da custodire, magari evitando di prestarvi troppa attenzione, ma la vive come qualcosa che richiede una continua e instancabile ricerca, esposta – com’è – alle sfide e alle inquietudini del tempo in cui viviamo.
prete, biblista ed educatore:
nato il 24 aprile 1925 e deceduto il 6 agosto 2015
Giovanni Giorgis nasce nel piccolo paese di Montefallonio, comune di Peveragno (Cuneo), il 24 aprile 1925.
Frequenta con impegno e diligenza le scuole elementari ed anche la Sezione Fanciulli dell’Azione Cattolica presso l’Oratorio della Parrocchia di Santa Maria a Peveragno, tanto da vincere il “Premio Roma”. Nel 1936 può così fare un viaggio a Roma, dove risiede per una settimana a Santa Marta in Vaticano, partecipando anche ad un incontro a Castelgandolfo con Pio XI.
Nell’autunno di quell’anno entra nel seminario minore di Mondovì presso il Santuario di Vicoforte e vi rimane fino al 1941, frequentando, con giudizio “lodevole”, le cinque classi “ginnasiali”.
Dal 1941 al 1947, sempre con giudizio “lodevole”, segue il corso filosofico e teologico presso il seminario maggiore di Mondovì Piazza.
Il 27 giugno 1948 è ordinato prete dal vescovo Sebastiano Briacca nella cattedrale di Mondovì.
Dal 1948 al 1951 completa a Roma gli studi teologici all’Ateneo Pontificio Angelicum e la specializzazione in studi biblici al “Pontificio Istituto Biblico” consociato alla Pontifica Università Gregoriana.
Nell’estate del 1951 rientra a Mondovì e inizia ad insegnare Sacra Scrittura nel corso teologico del seminario maggiore di Mondovì Piazza. L’attività di insegnamento monregalese si protrae fino al giugno 1966. A luglio di quell’anno il vescovo Carlo Maccari, che non ne condivide il metodo e stile di insegnamento, lo esonera dall’incarico. Ma soprattutto il vescovo, padre conciliare schierato con il gruppo dei “tradizionalisti”, di don Giorgis non apprezza il manifesto entusiasmo per il rinnovamento teologico e pastorale avviato dal Concilio Ecumenico Vaticano II in campo non solo biblico, ma anche liturgico, ecclesiologico, ecumenico, nel rapporto del cristianesimo con le altre religioni o in tema di libertà di coscienza.
L’insegnamento della Sacra Scrittura, grazie al sostegno di padre Michele Pellegrino (vescovo di Torino dall’ottobre 1965 al luglio 1977), prosegue tuttavia a Torino presso la Facoltà teologica e l’Istituto di studi teologici per religiosi e religiose, fino al 1985.
Nell’insegnamento della Bibbia cerca sempre di privilegiare un approccio esistenziale ai testi piuttosto che limitarsi ad una esposizione di tipo meramente accademico. Si preoccupa, quindi, di fare in modo che le lezioni – sempre molto qualificate a livello scientifico – non siano soltanto distaccato esercizio di interpretazione di vecchi testi, ma stimolo per camminare sulla strada di Dio nella concretezza della vita.
Durante il periodo “romano” don Giorgis viene in contatto con il movimento scout, di cui apprezza metodo e contenuti, affascinato dalla figura del fondatore, lord Robert Baden-Powell, e svolge il servizio di assistente ecclesiastico nel gruppo di Roma XII. Già nell’estate del 1949 partecipa al campo estivo a Manziana (Roma) e al campeggio “San Giorgio” a Cottanello (Rieti). Inizia contem-poraneamente a curare con entusiasmo la propria formazione scout, leggendo i libri del fondatore e approfondendo il metodo educativo che nulla lascia all’improvvisazione. Nell’agosto del 1950 partecipa ad Engelberg, in Svizzera, al suo primo campo-scuola per assistenti ecclesiastici.
Al rientro a Mondovì dopo la permanenza romana, progetta di costituire un gruppo monregalese. O meglio, di ricostituire lo scoutismo fondato in terra monregalese nel 1924 da Domenico Ferraris e da Aldo Ricolfi e soppresso dal fascismo nel 1928. La nuova avventura scout monregalese inizia già nell’autunno del 1951. I colori (blu con strisce gialle e rosse) del fazzoletto del Mondovì I sono quelli del Roma XII di allora.
Divenuto assistente regionale del movimento scout dal 1956 al 1969, Dongi, come ormai i suoi ragazzi imparano a chiamarlo, ha l’occasione di visitare in lungo e in largo tutte le realtà associative del Piemonte e molte dell’intera Italia. In qualità di assistente regionale ha la possibilità di incontrare parrocchie e comunità disponibili a promuovere la nascita di nuovi gruppi scout.
Nell’agosto del 1957 partecipa, con il Commissario Regionale Ripa di Meana, al Jamboree internazionale a Londra, designato come assistente ecclesiastico ufficiale. Alla metà degli anni ’60, con l’intenzione di offrire agli scout piemontesi una “base” fissa per lo svolgimento dei campi estivi e, in particolare, per ospitare i campi scout di formazione capi del Piemonte, don Giorgis acquista da suoi parenti un vecchio casolare attorniato da un gran bosco di castagni e pini, nella Valle Pesio, in regione Rio dell’Oy, tra Vigna e San Bartolomeo, in provincia di Cuneo. Questa casa, collocata in una zona particolarmente amena, sarà per qualche tempo anche la sua residenza abituale. A lui si deve anche l’organizzazione di campi di formazione per futuri assistenti ecclesiastici a Chieri, a Villa Luigina.
Gli amici lo sentono spesso affermare che dall’esperienza scout fra i giovani ha ricevuto una carica che gli ha consentito di proseguire con entusiasmo il suo cammino in anni non sempre facili. “Lo scautismo mi ha allargato il cuore”.
Allo scautismo rimane legato tutta la vita. Anche dopo aver abbandonato il servizio attivo, è sempre disponibile a partecipare ad incontri di formazione.
Lo scautismo gli insegna che la vita è un’avventura da vivere possibilmente nella gioia e con senso di responsabilità, non facendo mai mancare il proprio contributo per lasciare – come aveva scritto B.P. nel suo ultimo messaggio agli scout – questo mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato.
Dal 1977 al 2000 svolge il ministero di parroco nella parrocchia di Prato Nevoso. In questi anni è un conferenziere ricercato e apprezzato, in diocesi e fuori diocesi. Organizza giornate di studio e viaggi in Terra Santa. Collabora con la casa Editrice Esperienze di Fossano e con il settimanale diocesano “L’Unione Monregalese”.
Con lo scopo di diffondere la conoscenza della Bibbia, nel 1991 promuove la costituzione dell’associazione “La Tenda dell’Incontro”.
Inizia un periodo intenso di socializzazione della cultura biblica maturata nel corso di tanti anni di insegnamento. Prendono così corpo gli “Incontri biblici”: 48 opuscoli che costituiscono la “Prima Raccolta” e 17 monografie che costituiscono la “Nuova raccolta”.
Dedica l’ultimo periodo della sua vita alle molte persone, provenienti da ogni parte d’Italia, e ai ragazzi scout degli anni ’50 che ormai sono i suoi amici “vecchi scout”. La sua casa di Madonna dei Boschi è assiduamente frequentata da persone che vanno a fargli visita, certe di trovare in lui non solo un grande amico ma anche una persona di grande saggezza e una guida spirituale.
Grazie a lui molte persone imparano a riscoprire un modo adulto e libero di vivere la fede cristiana. Il suo sorriso intelligente e benevolo è sempre lo sfondo di discorsi importanti, alla ricerca – come era solito affermare – “di quel poco di verità che ci è dato intuire”. Si conferma un maestro e profeta schivo, che predilige i piccoli gruppi, in cui tutti si conoscono, si guardano negli occhi e condividono le cose importanti della vita.
Il richiamo ad una fede in grado di alimentare una vita umanamente piena e capace di rendere felici ricorre spesso nelle sue parole. “Essere felici è un piacere, ma è anche e soprattutto un dovere”.
A metà luglio del 2015 le condizioni di salute di Giovanni Giorgis si aggravano.
Dopo pochi giorni di degenza ospedaliera, avvertendo che anche per lui era giunto “il momento di sciogliere le vele” (2 Tim 4,6), chiede insistentemente di fare ritorno a casa: cosa che avviene mercoledì 5 agosto. Meno di ventiquattro ore dopo, “sazio di giorni” (Gen 25,8), serenamente “termina la sua corsa” (2 Tim 4,7), circondato dall’affetto e dalla simpatia delle tante persone amiche che hanno tratto beneficio dalla sua saggezza e lo hanno assistito nel corso delle ultime tappe del suo cammino.
Nelle settimane precedenti aveva confidato ad amici e amiche di ricordarlo – e lo è stato veramente – come un prete che ha felicemente e interamente speso la sua vita a servizio del regno di Dio e a beneficio degli uomini e delle donne di oggi.
Alla sua morte l’associazione “La Tenda dell’Incontro” non si è sciolta, ma, com’era nei suoi desideri, ha deciso di continuare l’attività, modificando il nome in “La Tenda dell’Incontro Giovanni Giorgis”.
Andrea Lebra
«Vorrei aggiungere qualcosa che forse ci è sfuggito. Il martirio di monsignor Romero non avvenne solo al momento della sua morte; fu un martirio-testimonianza, sofferenza anteriore, persecuzione anteriore, fino alla sua morte. Ma anche posteriore, perché una volta morto – io ero un giovane sacerdote e ne sono stato testimone – fu diffamato, calunniato, infangato, ossia il suo martirio continuò persino da parte dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Non parlo per sentito dire, ho ascoltato queste cose. Cioè, è bello vederlo anche così: come un uomo che continua a essere martire. Ebbene, credo che ora quasi nessuno osi più farlo. Dopo aver dato la sua vita, continuò a darla lasciandosi colpire da tutte quelle incomprensioni e calunnie. Questo mi dà forza, solo Dio lo sa. Solo Dio conosce le storie delle persone, e quante volte persone che hanno già dato la loro vita o che sono morte continuano a essere lapidate con la pietra più dura che esiste al mondo: la lingua (papa Francesco, dal discorso ai pellegrini provenienti da El Salvador, 30 ottobre 2015)»
Ho appena terminato di leggere, con interesse ed emozione, un nuovo libro dedicato alla grande figura di Óscar Arnulfo Romero, il vescovo martire di El Salvador, assassinato in odium fidei il 24 marzo 1980, che sarà santificato domenica prossima 14 ottobre da papa Francesco.
Il libro, dal titolo Óscar Romero – L’eredità teologica di un santo rivoluzionario (Queriniana 2018), ha come autore un giovane teologo statunitense, nato da genitori portoricani, Michael Edward Lee, docente di cristologia e spiritualità alla Fordham University di New York, padre di due figli e marito di una donna di origini italiane.
Intento della pubblicazione: delineare la visione teologica di Romero attraverso l’analisi della sua vita, dei suoi scritti e delle sue omelie. «Non è possibile capire Óscar Romero senza capire la sua teologia» (p. 273). L’eredità che il nuovo santo lascia alla Chiesa intera, infatti, «ha un contenuto profondamente teologico che non può essere ignorato» (p. 20). «Romero è una risorsa importante per il pensiero e per l’azione cristiana nel mondo di oggi» (p. 274).
Michael Edward Lee, dopo aver svolto per oltre quindici anni ricerche in El Salvador, illustra l’eredità teologica di san Romero delle Americhe sviluppando in particolare tre temi: la conversione, il discepolato e il martirio. Non per una mera finalità accademica, ma essenzialmente in funzione della risposta da dare ad alcune stringenti domande.
Perché Óscar Arnulfo Romero, «modello della fede-che-fa-giustizia» (p. 12), è importante oggi? Come, in pieno clima di globalizzazione, i cristiani possono pensare e vivere in modo diverso (p. 24) sull’esempio del cristiano, presbitero e vescovo Óscar Romero? In che modo la scelta preferenziale per i poveri, che è all’origine del suo martirio (p. 302), può essere di stimolo per i cristiani del XXI secolo, per incarnare e testimoniare l’Evangelo di Gesù di Nazareth nella vita di ogni giorno, così da contribuire a produrre storia di salvezza e di liberazione per tutti, umanizzando la società e cristianizzando la Chiesa?
«Nella teologia di Romero, la proclamazione del regno di Dio, la chiamata alla conversione e la denuncia del peccato sono le componenti chiave del ministero di Gesù che tutti i credenti devono imitare; sono i criteri su cui si misura il discepolato cristiano autentico» (p. 170). Questi tre elementi, caratteristici della persona di Gesù, come hanno plasmato l’approccio pastorale di Romero al ruolo della Chiesa nel mondo, così dovrebbero caratterizzare l’impegno – anche a livello politico – nella società di ogni persona battezzata (p. 299).
L’impegno a trasformare e ad umanizzare il mondo, a lottare contro il peccato non solo personale ma anche sociale e strutturale, a tutelare la dignità conferita da Dio e insita in ogni essere umano, a guardare la realtà delle cose dall’ottica dei poveri non è frutto di una personale sensibilità sociale ovvero un’aggiunta o un effetto collaterale della fede, ma piuttosto la dimensione necessaria di una fede viva e autentica (p. 148).
«Anche se il Credo di Calcedonia del V secolo afferma che Gesù è pienamente divino e pienamente umano, molta spiritualità cattolica della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX ha finito col focalizzare l’incarnazione in termini di affermazione della divinità di Gesù. L’incarnazione, intesa in modo particolare come uno dei misteri cristologici insieme alla crocifissione e alla risurrezione, diceva molto sul Dio che è divenuto umano in Gesù, ma non si è soffermata realmente su che tipo di essere umano Dio sia divenuto» (p. 208).
E ancora. «Una fede che cerca la trascendenza di Dio non guarda lontano dal mondo e dai suoi problemi. Fa l’opposto. Esamina a fondo il cuore del mondo e vi vede la presenza di Dio. Questa presenza radicalmente misteriosa di Dio si rivela più chiaramente nel mondo dei poveri, con coloro che sono marginalizzati» (p. 210).
Nel delineare l’evoluzione del pensiero teologico del nuovo santo, Michael Edward Lee sembra condividere (p. 34) sostanzialmente quanto ama affermare il vescovo Vincenzo Paglia, postulatore della causa di beatificazione: «Óscar Romero è il primo martire del concilio Vaticano II, nel senso che è morto per aver reso concreta con la sua vita, nella sua carne, l’opzione preferenziale per i poveri».
A questo proposito è interessante rilevare come sia dello stesso parere Bartolomeo Sorge, già direttore de La Civiltà Cattolica, che aveva avuto l’occasione di conoscere personalmente Romero a Puebla nel gennaio 1979, in occasione della 3ª Conferenza generale dell’episcopato latino-americano. Su Aggiornamenti Sociali (ottobre 2018), padre Sorge riporta quanto esplicitamente scritto il 31 gennaio 1980 da Romero nel suo diario: «Chi segue questa linea progressista di una Chiesa autenticamente fedele ai postulati del Vaticano II, deve soffrire molto e persino essere considerato con sospetto, ma la coscienza e la soddisfazione di servire Dio e la Chiesa valgono molto più di qualsiasi persecuzione».
L’evoluzione del pensiero teologico di Romero potrebbe essere sinteticamente espressa così: dalla teologia neoscolastica che dominò il cattolicesimo latinoamericano dall’inizio alla metà del XX secolo caratterizzata dal dualismo fra l’ordine umano e l’ordine divino, fra naturale e soprannaturale, fra corpo e anima, natura e grazia, materiale e spirituale, mondo e Chiesa, alla svolta antropologica caratterizzante la teologia del concilio Vaticano II riletta dalla Chiesa latinoamericana a Medellin (1968) e a Puebla (1979) che, da un lato, insegna con coraggio che la speranza escatologica offre nuovi motivi a sostegno dell’attuazione degli impegni terreni, dall’altro, crede fermamente che il riconoscimento del Dio rivelatosi in Gesù di Nazareth implica la tutela della dignità di ogni essere umano, in particolare dei poveri.
Il regno di Dio, annunciato da Gesù, «non è semplicemente il paradiso dell’aldilà, ma un modo riconfigurato di vedere l’esistenza umana sulla terra, in cui gli esseri umani prosperano in comunione gli uni con gli altri e con Dio» e «coloro che sono emarginati rappresentano più chiaramente il punto in cui tale comunione è spezzata, e in tal modo forniscono una missione alla Chiesa e a tutti i credenti su quella che dovrebbe essere la loro via di azione» (p. 300).
Nove mesi dopo la nomina ad arcivescovo di El Salvador, nell’omelia del 4 dicembre 1977 Romero affermò: «Una religione di messe domenicali, ma di settimane ingiuste, non piace al Signore. Una religione piena di preghiere, ma con ipocrisia nel cuore, non è cristiana. Una Chiesa che si insediasse solo per trovarsi a suo agio, per possedere denaro, agio e comodità, ma che dimentichi di denunciare le ingiustizie, non sarebbe la vera Chiesa del nostro Divino Redentore».
Nel febbraio 1980, un mese e mezzo prima di essere assassinato, dichiarò nel corso di una conferenza tenuta a Lovanio sul tema «Fede e politica»: «C’è una spiritualità pericolosa nel nostro tempo che dice alla Chiesa: tu devi predicare solo un mondo spirituale, devi parlare solo di Dio, del regno dei cieli e non ti devi preoccupare della terra. Così stiamo dividendo il Vangelo. Cristo è venuto a salvare gli uomini facendo attenzione anche ai loro corpi. Perciò non ci può essere una dicotomia fra i diritti di Dio e i diritti dell’uomo… Peccato è ciò che ha dato la morte al Figlio di Dio e peccato continua a essere ciò che dà la morte ai figli di Dio».
Romero santo è un dono straordinario non solo per la Chiesa cattolica, che, dal 1993, celebra il 24 marzo, data dell’assassinio di Óscar Romero, la Giornata mondiale di preghiera e digiuno per i missionari martiri. Lo è anche per ogni confessione cristiana e per gli uomini e le donne che operano a favore della tutela dei diritti umani e della dignità di chi è vittima della loro violazione.
Basti pensare alla scelta della Chiesa anglicana di porre la statua del martire Romero sopra l’ingresso ovest – dedicato ai martiri del XX secolo – dell’abbazia di Westminster, accanto a quella di Martin Luther King, di Dietrich Bonhoeffer e di Massimilano M. Kolbe (e altri), o alla risoluzione A/RES/65/196 del 21 dicembre 2010 delle Nazioni Unite di celebrare, a partire dal 2011, il 24 marzo la Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime.
È significativo che, nella risoluzione delle Nazioni Unite, si faccia riferimento in particolare al «lavoro importante ed estremamente utile di mons. Óscar Arnulfo Romero, di El Salvador, che si è attivamente impegnato in favore della promozione e della protezione dei diritti umani nel suo paese, e la cui attività è stata riconosciuta a livello internazionale grazie ai suoi appelli nei quali denunciava la violazione dei diritti umani delle persone più vulnerabili».
Così come è emblematico che vengano richiamati i «valori difesi da mons. Romero»: la «dedizione al servizio dell’umanità, nel contesto di conflitti armati»; la sensibilità umana a «difesa dei diritti umani, alla protezione della vita e alla promozione della dignità umana»; gli «appelli costanti al dialogo e la sua opposizione a tutte le forme di violenza al fine di evitare scontri armati». Valori che hanno «portato di conseguenza alla sua morte il 24 marzo 1980». «In tutto il mondo, coloro che lottano per la giustizia, che cercano di difendere i diritti umani e cercano soluzioni pacifiche ai conflitti violenti, possono guardare a Óscar Romero per esserne ispirati» (pp. 24-25).
Nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, papa Francesco ricorda che una delle caratteristiche della santità nel mondo attuale è la parresia, cioè l’audacia, l’entusiasmo e il fervore apostolico che sollecita a mai fermarsi su «comode rive» e a vincere la tentazione di fuggire in luoghi sicuri che possono avere molti nomi: «individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme».
Il santo sorprende e spiazza, perché la sua vita ci chiama ad uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante. Il santo ci ricorda che «Dio è sempre novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere. Ci conduce là dove si trova l’umanità più ferita e dove gli esseri umani, al di sotto dell’apparenza, della superficialità e del conformismo, continuano a cercare la risposta alla domanda sul senso della vita… Per questo, se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo: Lui sarà già lì. Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì».
Presentandoci in modo davvero magistrale l’eredità teologica di san Romero delle Americhe, il libro di Michael Edward Lee offre stimoli preziosi per «far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità».
Dunque, l’auspicio formulato da papa Francesco il 23 maggio 2015 in occasione della beatificazione di Óscar Arnulfo Romero Galdamez, non può che essere, alla vigilia della sua santificazione, anche il nostro: «Quanti hanno mons. Romero come amico nella fede, quanti lo invocano come protettore e intercessore, quanti ammirano la sua figura, trovino in lui la forza e il coraggio per costruire il regno di Dio e impegnarsi per un ordine sociale più equo e degno».
Andrea Lebra
Facciamo come ha fatto Dio: umanizziamoci !
Nell’umile e marginale ebreo che è stato Gesù di Nazareth, vissuto nella Palestina del primo secolo, Dio si è umanizzato e ha offerto così la possibilità all’essere umano di divinizzarsi, umanizzando la propria umanità.
Il cristianesimo, per essere eloquente e trovare forza rinnovata, deve saper orientare l’umano e sapersi riscoprire come arte di vivere, nella sua capacità di ispirare e suscitare vita, divinizzata in quanto pienamente umanizzata, alla maniera di Gesù di Nazareth, Colui che ci ha fatto conoscere e ci ha narrato Dio.
Sono due concetti che esprimono efficacemente il contenuto del denso e impegnativo libro del teologo spagnolo José Maria Castillo, edito in Spagna nel 2010 ed ora tradotto e pubblicato in italiano dalle Edizioni Dehoniane di Bologna con il titolo L’umanizzazione di Dio – Saggio di cristologia.
Docente emerito di teologia fondamentale nella Facoltà di Teologia di Granada (Spagna), professore invitato alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, alla Pontificia Università Comillas di Madrid e all’Università Centroamericana (UCA) di El Salvador, José Maria Castillo è uno dei maggiori teologi europei[1]. Allontanato dall’insegnamento nel 1988 da Joseph Ratzinger, è stato di fatto riabilitato da papa Francesco nel 2018. Sappiamo che la sera dell’8 gennaio 2018 papa Francesco ha telefonato a Josè Maria Castillo. Gli ha chiesto di pregare per lui e lo ha assicurato che avrebbe letto il libro La religiòn de Jesus – Comentarios al Evangelio”, dal teologo spagnolo dedicato a papa Francesco.
L’Autore si pone in ascolto della profonda crisi religiosa che sta attraversando il nostro tempo, ed esprime “con fermezza e altrettanta umiltà” proposte che ritiene, da un lato, compatibili con la fede cristiana (p. 16), dall’altro, in grado di contribuire a far luce sul problema più difficile che la Chiesa deve affrontare e risolvere: dire in modo intelligibile e accoglibile dagli uomini e dalle donne della postmodernità la definizione del Concilio di Calcedonia su Gesù “perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità”.
Noi cristiani, infatti, confessiamo come dogma di fede che Gesù di Nazaret è al tempo stesso e per essenza vero Dio e vero Uomo e crediamo che in lui si uniscono, senza mischiarsi e senza confondersi ed anche senza dividersi o separarsi, il divino e l’umano. Questa affermazione, non facilmente comprensibile e ancor meno tranquillamente accettabile, ha provocato, nel corso della storia della Chiesa, tensioni, dubbi, conflitti. Castillo ritiene che la maggiore difficoltà, ieri come oggi, stia nell’accettazione non della divinità di Cristo, ma dell’umanità di quell’umile e scandaloso galileo che ha concluso i suoi giorni sulla croce come un delinquente. Con il rischio sempre incombente di accettare, senza forse rendersene conto, una specie di monofisismo larvato che “dà più importanza al celeste che al terreno, apprezza di più lo spirito che la carne, considera più importante amare Dio che amare gli esseri umani, sente più rispetto per il sacro che per il profano, lotta con più ardore per presunti diritti divini che per quelli umani” (p. 9).
Nulla di più sconosciuto di Dio
La riflessione di Castillo parte da un dato di fatto: Dio non può mai essere circoscritto entro confini concettuali o esperienziali. Nessuna idea o immagine umana lo possono contenere.
Ci si deve guardare dal mettere le mani su Dio perché, per definizione, Dio è il Trascendente. Dio è oltre tutto quanto noi esseri umani possiamo raggiungere e, meno ancora, comprendere con la nostra limitata capacità. Non c’è nulla di più sconosciuto di Dio, per quanto si sia scritto o si sia disquisito sul significato e sul contenuto di questa parola (p.53).
Quando parliamo di Dio, non ne parliamo in termini di “Dio in sé”, ma solo in termini di rappresentazioni umane di Dio. E molte persone che oggi affermano di rifiutare Dio in realtà sembrano piuttosto respingerne rappresentazioni sbagliate e obiettivamente non ricevibili da parte degli uomini e delle donne della società secolarizzata occidentale in cui siamo chiamati a vivere.
Ma anche chiedersi se Gesù è Dio o affermare che Gesù è Dio presuppone che si conosca chi è Dio. Che Gesù sia Dio o che Gesù sia di condizione divina è un’affermazione problematica, perché quello che si vuol affermare ci è sconosciuto.
Il cristianesimo, però, osa fare due affermazioni paradossali.
Primo: è attraverso l’uomo Gesù di Nazaret che Dio diventa visibile.
Secondo: l’unica trascendenza di Dio che il cristiano è chiamato a testimoniare è quella che traspare nell’ immanenza della umanità storica di Gesù.
Gesù, il mezzo e la chiave di accesso a Dio
Che nessuno abbia mai visto Dio e che sia stato Gesù di Nazaret a rivelarcene il volto ce lo attesta il prologo del vangelo di Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18).
La missione di essere il rivelatore di Dio è stata assolta da Gesù non solo nella sua vita mortale, ma, come ci attesta Gv 17,26 (“Ho fatto loro conoscere il tuo nome, e glielo farò conoscere ancora”), continua ad essere assolta qui e ora.
Questo stesso messaggio si ripete con più forza e chiarezza in ciò che Gesù dice all’apostolo Filippo, quando egli chiede a Gesù: “Signore mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8). Davanti a questa richiesta la risposta di Gesù è tanto emblematica quanto sorprendente: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo ? Chi ha visto me, ha visto il Padre!” (Gv 14,9). Commenta Josè Maria Castillo: “La sorprendente innovazione introdotta da Gesù nel poter conoscere Dio sta nel fatto che il Trascendente e l’Invisibile sono diventati immanente e visibile in quell’uomo che è stato Gesù” (p. 150).
Quello che i cristiani possono sapere su Dio, dunque, lo sanno a partire da quello che ha loro rivelato Gesù, con la sua vita, le sue azioni e le sue parole. Il cristianesimo ha il suo vero senso solo quando lo si interpreta a partire dall’umanità storica Gesù.
Scrive Castillo: “Incontrare Dio in Gesù di Nazaret significa incontrare Dio (e la salvezza che Dio ci concede) nella storia, nella vita e nelle azioni di quell’ebreo che è stato Gesù il Nazareno” (p. 161), la cui esistenza nella Palestina del primo secolo può essere affermata con certezza grazie ai dati abbondanti e sicuri che possediamo e che si riferiscono a quello che ha fatto e insegnato (p. 30).
Il Dio che Gesù ci fa conoscere è il migliore dei padri che noi possiamo conoscere: un Padre che si caratterizza non per il potere, il dominio o la tirannia, ma per la bontà, l’accoglienza incondizionata, la tolleranza, il rispetto e l’amore; un Padre che non chiede sottomissione, ma rassomiglianza a lui nella libertà (p. 93). “Con questo Gesù ha voluto dirci che, a partire dall’esperienza umana di un padre amabile, che dà affetto e sicurezza, a partire da quest’esperienza così umana possiamo cominciare a conoscere quello che è Dio e come è Dio” (p. 103).
Gesù, l’umanizzazione di Dio
Ma il cristianesimo fa una seconda affermazione paradossale.
“Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14: o logos sarx egheneto cai eschenosen en umin). Con una fedele traduzione del testo greco del prologo di Giovanni, la teologia parla comunemente di “incarnazione di Dio”, e piuttosto raramente di “umanizzazione di Dio”.
Secondo Castillo, “il mistero dell’incarnazione si può comprendere correttamente se lo si intende come il mistero dell’umanizzazione di Dio” (p. 167). La formula del prologo di Giovanni afferma che Dio si fa conoscere a noi e ci incontra nella “carne” di Gesù di Nazaret, cioè nella sua umanità. Quando si parla del mistero dell’incarnazione, non si tratta di dire che l’uomo è divinizzato, ma che Dio ha rinunciato alla sua condizione divina per identificarsi con l’umanità. “Dire che Dio si è incarnato equivale a dire che si è umanizzato” (p. 225).
Ma vi è di più. “L’umano di Gesù non è stato l’umano di un imperatore, di un grande di questo mondo o di un potente della terra. L’umano di Gesù è stato l’umano di una povera e umile creatura nata nella miseria di una stalla, vissuta come escluso che non aveva nemmeno un posto dove poggiare il capo e, soprattutto, morta come un uomo indesiderabile giustiziato dai poteri religiosi e politici, come se fosse uno schiavo e uno straniero” (p. 326).
Secondo la lettera ai Filippesi, infatti, Gesù Cristo, pur essendo nella condizione di Dio, si spogliò del suo rango fino a morire in croce, diventò simile all’essere umano, assunse la forma di servo/schiavo, decise di stare sul gradino più basso della scala sociale umana (Fil 2,5-11).
Una fede che umanizza la vita
Come conseguenza della umanizzazione di Dio realizzata in Gesù, va affermato che al Dio di Gesù ci si avvicina non divinizzandoci, ma al contrario umanizzandoci. Detto diversamente: umanizzandoci alla maniera di Gesù ci si avvicina a Dio e, quindi, ci divinizziamo.
“In questo – afferma Castillo – consiste la cosa più nuova, più sorprendente e perfino più rivoluzionaria che si può dire sul Dio di Gesù e anche, ovviamente, sull’essere umano” (p. 87). Il divino si rivela a noi nella misura in cui rispettiamo l’umano, potenziamo l’umano e ci umanizziamo sempre di più, sanando la grande disumanità che dilaga nel mondo (p. 155), cioè ogni inclinazione ed ogni condotta che, per azione o omissione, finisce con il danneggiare o far soffrire qualcuno (p. 165).
Oggi la fede, per essere eloquente, deve saper orientare l’umano e deve essere innestata su di esso. Il cristianesimo deve sapersi riscoprire come arte di vivere, alla sequela di Gesù che, come si legge negli Atti degli Apostoli, passò in mezzo a noi facendo del bene e alleviando le sofferenze di quanti erano tormentati dalle forze del male (At 10,38).
Le potenzialità umanizzatrici della fede cristiana risiedono nel bene che fa, nella sofferenza che allevia, nella felicità che garantisce agli uomini e alle donne e nella speranza che infonde in chi la professa, affinché tutti si possa trovare “sempre il senso della vita che offre incoraggiamento e forze per andare avanti nel compito che a ciascuno tocca in questo mondo” (p. 332).
Dal racconto che il vangelo di Matteo fa circa il giudizio definitivo di Dio sulla storia dell’umanità (Mt 25,31-36) emerge che Dio si identifica non solo con ogni essere umano, ma con tutto ciò che è sofferenza, spoliazione e umiliazione dell’umano. Nell’ora della suprema verità la sola cosa che sarà tenuta in considerazione “non sarà quello che ciascuno ha fatto o non ha fatto con Dio, bensì quello che ha fatto o non ha fatto con gli esseri umani con i quali ha vissuto” (p. 156).
Una Chiesa umanizzata e umanizzante
Ulteriore conseguenza del discorso di Castillo è la necessità di umanizzare la Chiesa. Se Dio si è umanizzato in Gesù per portare la salvezza a questo mondo, altrettanto dovrebbe fare la Chiesa per essere testimone credibile di questo Dio, spogliandosi dei suoi privilegi e di ogni pratica che si traduca in disuguaglianze fra cristiani. “Ad esempio, la classica disuguaglianza di diritti fra uomini e donne nella Chiesa” (p. 289).
Ma la Chiesa, come comunità dei credenti nel Signore Gesù, ha anche il compito non solo di fugare il sospetto – che accompagna molta cultura contemporanea – per il quale il riferimento a Dio risulta essere una mortificazione dell’umano, ma soprattutto presentare e testimoniare la proposta cristiana all’insegna di un’autentica fioritura dell’umano.
Il Vangelo di Gesù, infatti, è in grado – direbbe Etty Illesum – di “dissotterare l’umano che dorme nei nostri cuori”.
“Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma l’uomo”
“Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), in base a una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma l’uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo”.
Lo scriveva dal carcere di Tegel Dietrich Bonhoeffer in una lettera del 18 luglio 1944 indirizzata all’amico Eberhard Bethge (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Editrice Queriniana, Brescia 2002, p. 499).
E’ il succo – mi sembra – del prezioso ed istruttivo “saggio di cristologia” di Josè Maria Castillo, L’umanizzazione di Dio.
Andrea Lebra
[1] Di Josè Maria Castllo, in lingua italiana disponiamo ad oggi delle seguenti pubblicazioni: L’ umanizzazione di Dio. Saggio di cristologia, EDB 2019 (Madrid 2010); L’umanità di Gesù, Edizioni La Meridiana 2018 (Madrid 2017); La laicità del Vangelo, Edizioni La Meridiana 2016 (Madrid 2014); L’umanità di Dio, Edizioni La Meridiana 2014 (Madrid 2012); Vittime di peccato, Fazi Editore 2012 (Madrid 2004); Fuori dalle righe – Il comportamento di Gesù, Cittadella Editrice 2010 (Bilbao 2007); La Chiesa e i diritti umani, Gabrielli Editori 2009 (Bilbao 2008); Dio e la nostra felicità, Cittadella Editrice 2008 (Bilbao 2007); I poveri e la teologia – Vita, libertà, utopia nella teologia del terzo millennio, Cittadella Editrice 2002 (Bilbao 1998); Simboli di libertà – Analisi teologica dei sacramenti, Cittadella Editrice 1983 (Salamanca 1981).
di Roberto Repole (docente di teologia sistematica alla Facoltà Teologica di Torino)
(da: Alberto Cozzi-Roberto Repole-Giannino Piana, Papa Francesco: quale teologia,
Cittadella Editrice, Assisi 2016, pagg. 69-126. Sintesi a cura di Andrea Lebra)
Il magistero ecclesiologico di papa Francesco è profondamente in sintonia con il rinnovamento ecclesiologico offerto dal Concilio Vaticano II e ne rappresenta una nuova ed originale recezione. Che il Concilio rappresenti lo sfondo nel quale collocare l’insegnamento di Francesco è lo stesso papa a dirlo. Nella Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della misericordia Misericordiae vultus scrive di aver scelto l’8 dicembre 2015 come data di apertura dell’Anno Santo, in quanto ricorrenza del cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, evento ecclesiale che ha fatto percepire “forte, come un vero soffio dello Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile” (MV n° 4). Al paragrafo n° 17 dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (EG), nell’intento di proporre alcune linee per incoraggiare e orientare la Chiesa in una nuova tappa evangelizzatrice, egli dichiara di richiamarsi alla dottrina della Costituzione dogmatica Lumen gentium.
Risente del magistero conciliare l’evidente riconoscimento che il centro della Chiesa non sia in se stessa, bensì in Cristo e nel Dio in Lui rivelatosi, che la abita, la anima e la guida lungo la storia e le strade di questo mondo. Per Francesco, questo “centro” va ricercato nel Vangelo che è, etimologicamente, fonte di gioia per le persone. Non esiste la Chiesa se non come frutto del Vangelo. L’incipit della EG esprime bene come ciò che costituisce la Chiesa sia questo suo essere abitata dalla gioia prodotta dal Vangelo, ovvero dall’incontro con Cristo e, pertanto, con l’amore di Dio: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù” (EG n° 1).
Con una nuova fase di recezione del magistero conciliare, Francesco afferma che al centro del Vangelo vi è la misericordia. Scrive, infatti, nella Misericordiae vultus: “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi” (MV n° 1). La misericordia è la carta di identità del Dio narratoci da Gesù Cristo. Relazionarsi con la persona di Cristo, in cui è sintetizzabile il Vangelo, significa relazionarsi con il Dio che ha cuore le miserie dell’umanità, compreso il peccato. Per Francesco la Chiesa è comunità dei credenti in Cristo, che vive della misericordia del Dio trinitario apparsa in Cristo. In prima istanza ciò significa che l’amore di Dio non può ridursi a “dottrina” incapace di introdurre realmente, nella forza dello Spirito, all’incontro personale e vivo di ciascuno di noi con Cristo. In secondo luogo ciò vuol dire che, perché vi sia l’incontro con il Vangelo, esso deve toccare la vita concreta delle persone. E questo incontro implica il loro libero assenso che diventa conversione e denuncia del peccato. In questo senso non si può in alcun modo intendere il primato della misericordia come alibi per una mancanza di radicalità evangelica o, peggio, quale indulgenza verso un relativismo etico tipicamente postmoderno. La misericordia è una meta da raggiungere, che richiede impegno, determinazione e costanza.
Il Vangelo della misericordia non riguarda solo le singole persone battezzate, ma anche la Chiesa nel suo insieme. Soltanto una Chiesa trasparente al Dio apparso in Cristo può far sì che Egli rimanga vivo e capace di interpellare l’umanità di oggi e di sempre. La misericordia deve trasparire, a tutti i livelli, ma soprattutto nell’annuncio e nel vissuto ecclesiale a favore dei poveri. “L’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofia…Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri” (EG n° 198). Per generare al Vangelo, la Chiesa è chiamata a condividere quella stessa povertà che fu di Cristo, nel quale si condensa tutto il Vangelo di Dio. Si tratta di un aspetto già evidenziato nel paragrafo 8 della Lumen Gentium, non particolarmente recepito negli oltre cinquant’anni che ci separano dal Vaticano II.
Con Francesco la categoria conciliare della Chiesa “popolo di Dio” torna in piena luce. Essa esprime un concetto fondamentale: nella Chiesa prima di qualunque distinzione di carisma, di servizio, di compito, di autorità, ciò che conta ed è fondamentale è che tutti apparteniamo al “popolo di Dio” in virtù del battesimo, l’unico grande titolo che ci contraddistingue come cristiani. Il popolo di Dio è un “popolo messianico” che ha per capo Cristo; per condizione “la dignità e la libertà dei figli di Dio”; per legge un’unica legge, quella dell’amore; per fine un unico fine, quello del Regno di Dio (Lumen Gentium n° 9). Da qui discende la stigmatizzazione di ogni forma di clericalismo nella Chiesa, che porta a sottovalutare l’agire dello Spirito in tutti i battezzati, a considerare i laici come dei mandatari dei chierici e a concepire il ministero ordinato non quale è – cioè un servizio per l’esistenza della Chiesa – ma una forma di potere di alcuni su altri.
Certamente, nel suo essere frutto dell’iniziativa divina e del Vangelo, il popolo di Dio non si esaurisce nei popoli e nelle culture che li contraddistinguono; ciò non di meno, non può esistere né trasmettere il Vangelo senza inculturarsi, senza abitare dal di dentro e senza assumere in qualche modo la cultura dei popoli in cui esiste. “Il popolo di Dio si incarna nei popoli della terra, ciascuno dei quali ha una propria cultura…La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve” (EG n° 115). Ciò ha come conseguenza che l’opera di evangelizzazione della Chiesa deve incidere nelle culture e trasfigurare le stesse culture.
Ridando centralità alla categoria del popolo di Dio, il Vaticano II ha rimesso in evidenza come esista nella Chiesa un sensus fidelium, in forza del quale c’è una infallibilità in credendo sulla quale si radica quella in docendo (EG n° 119). I pastori sono invitati, da un lato, a confidare nel popolo di Dio, nella sua memoria, nel suo “olfatto”, nel suo sensus fidei (Lumen Gentium n° 12), dall’altro, a confidare che lo Spirito Santo, che agisce nel popolo di Dio e con il popolo di Dio, non è solo “proprietà” della gerarchia ecclesiastica. Grazie al sensus fidei, i cristiani sono in grado non soltanto di riconoscere quanto è in accordo con il Vangelo e di rifiutare quello che gli è contrario, ma anche di percepire ciò che papa Francesco ha chiamato, in un discorso pronunciato ad Assisi il 4 ottobre 2013, “nuove vie per il cammino di fede dell’intero popolo pellegrino.
La Chiesa in uscita missionaria è una categoria assolutamente centrale nella proposta ecclesiologica di papa Francesco. A ben vedere si tratta di una novità più nominalistica che contenutistica, dal momento che, come aveva affermato il Vaticano II, “l’attività missionaria scaturisce direttamente dalla natura stessa della chiesa” (Ad Gentes n° 6). Nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, Francesco indica la “riforma della chiesa in uscita missionaria” come la prima delle sette questioni che gli stanno più a cuore (EG n° 17). Nell’enciclica Laudato sì’ afferma di aver scritto l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium “ai membri della chiesa per mobilitare un processo di riforma missionaria ancora da compiere” (LS n° 3). Le prospettive offerte da Francesco circa una Chiesa in uscita missionaria richiedono di essere contestualizzate nell’ambito di una Chiesa – come quella europea e italiana – obbligata a confrontarsi con la fine della cristianità e con una secolarizzazione avanzata, il cui significato non è la fine della possibilità della fede e dell’appartenenza ecclesiale, ma l’inefficacia di un modo di pensare la fede che non tenga conto del mondo disincantato in cui viviamo e di una forma di Chiesa strutturata ancora secondo il paradigma della cristianità.
L’evangelizzazione risponde al mandato missionario di Cristo Risorto testimoniato da Mt 28,19-20 (EG n° 19). Nell’opera di evangelizzazione è coinvolto non solo qualche cristiano, ma l’intera comunità. E il Vangelo da annunciare non è altro che il Vangelo della misericordia. Inoltre il Vangelo della misericordia non può ridursi ad annuncio verbale: proprio perché è la buona notizia di un Dio che si china sulle miserie umane, l’annuncio comporta una prassi di misericordia e il farsi carico delle sofferenze, delle miserie e del peccato di quanti divengono, in termini diversi, destinatari del suo annuncio. Di conseguenza, la carità e la promozione umana non sono estranee all’opera di evangelizzazione. Anche il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa. Ad una Chiesa che viva, come quella italiana, nel contesto di fine cristianità e secolarizzazione, è richiesta una conversione pastorale basata su alcune importanti istanze: ristrutturazione di ogni singola comunità cristiana sulla base della trasmissione della fede a quanti ignorano il Vangelo o ne hanno una percezione fuorviata; promozione, nelle comunità cristiane, di luoghi di autentica fraternità vissuta e di condivisione della fede; attenzione particolare alla pastorale nei confronti dei giovani; presa d’atto reale che l’evangelizzazione compete a tutte le persone battezzate.
Da tempo si dice che nella Chiesa “è l’ora dei laici”, ma “sembra che l’orologio si sia fermato”. E’ uno dei passaggi della lettera scritta il 19 marzo 2016 da Papa Francesco al cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina. Un testo incentrato in primo luogo sul ruolo del laicato nella vita della chiesa latinoamericana, ma che, per le affermazioni che contiene, è certamente diretto anche alle nostre comunità.
L’annuncio del Vangelo deve avvenire da persona a persona. Esso non coincide con la sola comunicazione verbale, ma implica la testimonianza di vita e una prassi di carità. Oggi è, dunque, urgente ripensare ad una Chiesa capace di assumere il compito di trasmettere il Vangelo da persona a persona. Ciò implica una Chiesa capace di discernere, promuovere e valorizzare i molteplici carismi dei molti cristiani laici che, per lo più, si trovano nelle condizioni di testimoniare il Vangelo vivendo nel mondo.
La Chiesa non può annunciare il Vangelo della misericordia, che la fa esistere, senza farsi voce profetica, capace di denunciare gli idoli che pretendono di prendere il posto del Dio di Gesù Cristo, ponendo attenzione alla portata distruttiva del relativismo non solo dottrinale, ma anche pratico. Non piegato alle logiche mondane, l’annuncio del Vangelo è in grado di sprigionare la forza umanizzante e liberante che porta in sé.
La conversione pastorale della Chiesa nella prospettiva della sua “uscita missionaria” deve comprendere una riforma delle sue strutture. Scrive Francesco: “La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie” (EG n° 27).
Per papa Francesco vi è un’altra categoria che deve caratterizzare la chiesa del terzo millennio: la categoria della sinodalità. Anzi, quello della sinodalità è “il cammino che Dio si aspetta dalla chiesa del terzo millennio” (Francesco, Commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015). Un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica. In ogni caso, un concetto che rimanda ad una dimensione costitutiva della Chiesa, dal momento che, come dice san Giovanni Crisostomo, “Chiesa e Sinodo sono sinonimi”. Nella chiesa sinodale l’ascolto è non solo il momento iniziale di ogni processo, ma anche la disposizione di fondo che regola ogni azione. In essa il dovere di ascoltare riguarda tutti, ciascuno nello stato che gli è proprio. Più alta è la responsabilità di cui uno è investito, più egli è tenuto all’ascolto. Nella chiesa sinodale l’uno è in ascolto dell’altro; e tutti si pongono in ascolto dello Spirito.
Uno degli aspetti in cui si mostra soprattutto la volontà di riforma del papa è quello della collegialità intermedia. Si tratta di decentrare le competenze della Santa Sede e ridare consistenza alle Regioni Ecclesiastiche, ai Concili particolari e alle Conferenze episcopali. Ciò è necessario proprio in ragione di una Chiesa capace di abitare le diverse culture e che intenda annunciare il Vangelo della misericordia, facendo in modo che esso sia tale raggiungendo le persone nella situazione concreta e nella cultura in cui si trovano: il che implica un discernimento che non può essere fatto che dagli episcopati locali (EG n° 16).
La sinodalità offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico. Nella chiesa sinodale non ci si può elevare al di sopra degli altri e chi si mette al servizio dei fratelli e delle sorelle lungo il cammino deve “abbassarsi”. L’immagine da privilegiare è quella della piramide capovolta, il cui vertice si trova al di sotto della base. E coloro che esercitano l’autorità debbono ritenersi i più piccoli tra tutti, in quanto vicari di quel Gesù che nell’ultima cena si è chinato a lavare i piedi degli apostoli. Per i discepoli di Gesù l’unica autorità è l’autorità del servizio. L’impegno ad edificare una chiesa sinodale – ci ricorda Francesco – è una missione alla quale tutti siamo chiamati, ciascuno nel ruolo affidatogli dal Signore.“Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale” (EG n° 32).
La visione ecclesiologica di Francesco necessita di essere recepita dalle Chiese e da tutte le persone battezzate con apertura e docilità. Vi sono almeno sei questioni più strutturali sulle quali varrebbe la penda di intervenire, mettendo in campo le diverse competenze e responsabilità per non vanificare l’apporto magisteriale di Francesco. Eccole: (1) ripensare, anche sul piano canonico, gli organismi di partecipazione, trasformandoli da “consultivi” a “deliberativi”; (2) mettere fine alla prassi di vescovi che non siano effettivamente pastori di una Chiesa particolare; (3) far partecipare le Chiese locali nella elezione del proprio vescovo; (4) concepire e valorizzare il servizio episcopale quale pienezza del sacramento dell’ordine in stretto legame con il presbiterio che il vescovo presiede; (5) dotare di effettività la collegialità a livello delle diverse Conferenze episcopali e del Sinodo dei vescovi; (6) anche a livello mediatico privilegiare maggiormente la sinodalità e la collegialità rispetto alla figura del leader imperniata spesso sul solo papa.
Formare cristiani adulti
di Francesco Cosentino
(da L’Osservatore Romano del 10 aprile 2020)
La trasmissione della fede alle nuove generazioni in un volume del teologo Armando Matteo
Chi si interroga sul futuro possibile del cristianesimo e della Chiesa, soprattutto in Occidente, almeno una volta sarà rimasto appeso alla domanda che il teologo canadese Jean-Marie Tillard si pose negli ultimi anni di vita: «Siamo gli ultimi cristiani?».
L’interrogativo non nasce dall’amarezza o da quello che Papa Francesco ha chiamato «il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura» (Evangelii gaudium, n. 85) quanto, piuttosto, dalla consapevolezza che per affrontare la crisi odierna della fede bisogna aprire gli occhi, affinare il cuore alla battaglia e, soprattutto, attuare un vero e proprio cambiamento di mentalità pastorale.
Stupisce e non poco, in tal senso, che alla condizione post-cristiana in cui ci troviamo corrisponda spesso un atteggiamento ecclesiale che minimizza, che non percepisce la crisi, che non elabora nuove strategie, cercando di difendere con i denti — non senza frustrazione — il poco che è rimasto.
A riaccendere la domanda sul futuro del cristianesimo e a proporre una terapia d’urto alla pastorale ci pensa il teologo calabrese Armando Matteo, docente di teologia fondamentale alla Pontificia università Urbaniana e già assistente nazionale della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), che ha dato alle stampe la sua ultima fatica: Pastorale 4.0. Eclissi dell’adulto e trasmissione della fede alle nuove generazioni (Roma, Àncora Editrice, 2020, pagine 118, euro 9,99).
Noto al grande pubblico per aver individuato il crocevia della crisi tra i giovani e la fede con il fortunato libro sulla prima generazione incredula, Matteo è convinto che la “follia” odierna della pastorale sia quella di sperare di ottenere cambiamenti mettendo all’opera i meccanismi di sempre, coltivare «l’inaudita pretesa che le cose vadano diversamente, pur facendo le cose di cinquanta o sessant’anni fa» (pagina 8). Per dirla con Papa Francesco: «vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima» (Discorso alla Curia Romana per gli auguri di Natale, 21 dicembre 2019).
Ciò che occorre, invece, è un vero e proprio cambiamento della mentalità pastorale, cosicché l’annuncio del vangelo e l’agire ecclesiale siano davvero capaci di raggiungere il cuore della vita quotidiana delle persone, in un contesto profondamente mutato, e per certi versi inospitale verso alcuni registri linguistici e concettuali del cristianesimo.
Nella prima parte di questo accattivante saggio, il teologo calabrese riprende alcune analisi che ha avuto modo di esplicitare negli ultimi anni circa la difficile relazione tra la fede e i giovani, la fuga delle donne dalla comunità ecclesiale e, in particolare, la crisi dell’adulto. Quest’ultimo aspetto appare centrale nella riflessione del teologo, specialmente al fine di comprendere la crisi della trasmissione della fede: il compito di essere adulto, infatti, e quindi di guardare l’altro per “generare”, non è più una meta per nessuno. Infatti, gli sviluppi economici e sociali, i progressi della medicina, l’esplosione della vita in molteplici forme, l’emancipazione e la longevità hanno fatto sorgere generazioni di persone «innamorate di questa terra». Esse intendono godersi la vita in pienezza: amare, viaggiare, vestirsi, progettare, curare il proprio corpo, fino a quell’adorazione del mito della giovinezza alimentato dalla longevità della vita; in tale visione delle cose, l’uomo odierno non pensa più l’evoluzione della sua vita come un imbuto, «alla cui parte larga si collocherebbero la nascita, l’infanzia e la giovinezza… e alla cui parte tubolare, invece, l’età adulta, contrassegnata da quelle scelte irreversibili e definitive, familiari e lavorative» (pagina 49).
Al contrario, la cultura postmoderna ha generato un individuo per il quale non c’è bisogno di una verità unica, di un destino segnato, di un orientamento naturale; semplicemente si viaggia, esplorando la vita in lungo e in largo, nell’ebbrezza di una perenne giovinezza che procrastina continuamente la soglia dell’età adulta della vita, quella in cui ci si assume i doveri familiari e sociali e si diventa finalmente “padri” di qualcuno e di qualcosa, esercitando la cura dell’altro.
Di contro — afferma con coraggio Matteo — mentre gli adulti pensano a conservare il cucciolo della fanciullezza, tutto l’impianto della nostra pastorale — con i suoi riti, le sue pratiche e i suoi ritmi — rimane ancorato a una visione di uomo precedente, che andava bene quando le persone vivevano una vita di duro sacrificio e morivano prima; in quella situazione, minata peraltro da una diffusa ignoranza, da un’esistenza faticosa e dal destino segnato, dalle guerre e dalla povertà, la parola e la prassi cristiana erano funzionali a una “consolazione”. Diventando adulti, perciò, si diventava quasi automaticamente cristiani.
La rivoluzione copernicana della mentalità pastorale proposta da questo agile libro è sorprendente: bisogna diventare cristiani per diventare adulti. Infatti, l’adulto è oggi scomparso e a quell’età della vita nessuno ha più bisogno di parole consolanti, di verità di senso che alleggeriscano il peso di una vita dura, né di speranze sovraterrene che accompagnino il faticoso mestiere del vivere “in una valle di lacrime”. Quella durezza ha lasciato il posto a una vita agiata e piena di possibilità, il destino si è aperto a innumerevoli progetti da coltivare, la valle di lacrime è diventata una prateria senza confini in cui ciascuno abbraccia con intensità l’esistenza, in lungo e in largo.
Occorre invertire la marcia, magari incominciando dal rinnovamento dell’attuale sistema dell’iniziazione cristiana, che «ancora immagina di dover spendere tutte le sue migliori energie per accompagnare i piccoli verso la stagione dell’adultità, nella quale potranno appunto fare memoria delle nozioni apprese durante il catechismo per i sacramenti» (pagina 72); e, invece, «non si può più scommettere sull’accesso all’età adulta quale luogo/tempo per diventare cristiani» (pagina 73).
Bisogna perciò creare le condizioni perché chi accede nel contesto ecclesiale possa diventare cristiano. Solo così — chiosa Matteo — potrà anche diventare adulto, scoprendo l’importanza di «smettere di contemplarsi allo specchio dei propri desideri» e scoprire la bellezza della responsabilità, della gioia di donarsi e dell’essere fecondi. Con un linguaggio attraente e immagini efficaci, Armando Matteo lancia la sfida: si deve passare dall’idea che la Chiesa serva a dare luce all’adulto all’idea che la Chiesa deve generare adulti. Da un cristianesimo che consola gli adulti e la loro vita faticosa (che in realtà non è più tale) a un cristianesimo che permetta alle persone di incrociare il fascino di Gesù Cristo e del vangelo. Insomma, è tempo di passare da un cristianesimo della consolazione a un cristianesimo dell’innamoramento.
Dieci cose che si possono fare subito per inaugurare finalmente la Chiesa del futuro sono elencate dall’autore alla fine di questo avvincente saggio; si tratta di provocazioni, consigli pratici, proposte di rinnovamento ecclesiale e liturgico, nelle quali i lettori — preti, operatori pastorali, credenti “curiosi” — insieme a una buona dose di intelligente ironia, troveranno spunti di grande interesse per il rinnovamento della pastorale. Un libro che si preoccupa di far nascere in noi tutti la vera preoccupazione necessaria: mettere mano al futuro della Chiesa.
La parabola dei talenti (cfr Mt 25,14-30) ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo, anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Siamo chiamati a riflettere per scoprire quale sia veramente la nostra idea di Dio. Già nell’Antico Testamento Egli si è rivelato come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). E Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui. (Papa Francesco, Angelus 19 novembre 2017) |
Nel suo ultimo libro, Non è quel che credi – Liberarsi dalle false immagini di Dio (EDB 2019), Francesco Cosentino afferma che “riconciliarsi con Dio, distruggendo le immagini negative e oppressive di lui che nel tempo hanno ricoperto di cenere le braci della fede, è il cuore della grande avventura spirituale dei nostri giorni”.
Pur nella consapevolezza che Dio è sempre più grande di qualsiasi rappresentazione umana e che davanti a lui è bene fare come Mosè, cioè toglierci i sandali della presunzione e della voracità, ogni credente dovrebbe – è la raccomandazione dell’Autore – porsi ogni giorno alcune decisive domande. In quale Dio credo ? Qual è l’immagine di Dio che mi porto dentro ? Quale Dio accompagna la mia giornata, raccoglie le mie paure, accarezza i miei sogni e nutre le mie speranze ?
Alla luce del contenuto del bel saggio del docente di teologia fondamentale della Pontificia Università Gregoriana, mi sembra che a queste domande si possa rispondere sinteticamente nei termini che seguono.
Il Dio in cui non credo
Non credo nel Dio tappabuchi, sul quale proietto desideri e bisogni, al quale dovrei rivolgermi quando la vita quotidiana diventa insopportabile e dal quale dovrei aspettarmi ciò che io stesso devo osare e fare. Non credo nel Dio che dall’alto della Sua trascendenza e onnipotenza muove le cose a Suo piacimento e mi induce a credere che sia inutile impegnarsi a cambiare il corso degli eventi. Non credo nel Dio che vuol essere riconosciuto solo nei limiti delle mie possibilità e non anche al centro della mia vita, solo in relazione alla colpa e al peccato e non anche in relazione al bene che posso compiere.
Non credo nel Dio giudice distante e spietato, che esige la perfezione della mia prestazione e che mi punisce se devio dalla retta via. Non credo nel Dio della paura che castiga e mi defrauda della possibilità di sentirmi qualche volta in regola e rappacificato con me stesso. Non credo nel Dio poliziotto e capriccioso che ama perché uno fa il bene e non ama più chi fa il male.
Non credo nel Dio contabile e legalista, privo di sentimenti e senza cuore, contabile puntiglioso, che registra ogni mio sbaglio per un severo rendiconto finale. Non credo nel Dio doganiere al quale nulla sfugge e rispetto al quale difficilmente passo la frontiera della buona accettazione di me stesso. Non credo nel Dio spione, “grande fratello”, occhio che penetra e tutto vede, fino a violare la mia intimità.
Non credo nel Dio del sacrificio che antepone il sacrificio all’amore, che si diverte a mandarmi la croce e la sofferenza perché mi vuol bene. Non credo nel Dio che stende un velo di sospetto e di veleno sui piaceri della vita. Non credo nel Dio che toglie le ali alla gioia e alla libertà, facendo della mia vita un peso insopportabile da subire al posto di un dono liberante da offrire.
Non credo nel Dio dell’efficienza che dona a ciascuno secondo quanto gli spetta. Non credo in un Dio padrone, che misura severamente sulla bilancia i miei demeriti e centellina il suo amore per me.
E non credo neppure nel Dio superpotenza invisibile che somiglia ad una entità vaga dell’aldilà, solenne seccatore che riassume la percezione degli adolescenti dinanzi alle raccomandazioni pressanti dei genitori, torturatore che mette in atto vendette e punizioni mandando catastrofi e terremoti, prestigiatore dagli strabilianti miracoli facili, dispensatore di fanatiche certezze. E non credo neppure nel Dio puerile e bambinesco che mi rimbocca le coperte e mi fa salire su una carrozza quando piove.
Il Dio in cui credo
Il Dio in cui credo accende la vita, mette in moto la speranza e sussurra le inquiete domande del cuore, opponendo il fluire entusiasta della vita vera alle fissazioni, alle rigidità e alle piccole certezze in cui continuamente rischio di trincerami.
Il Dio in cui credo è domanda aperta che mi invita ad uscire, tenendomi in esodo permanente. Credere in Lui è come vivere: basta restare in viaggio.
Credo nel Dio biblico che dà appuntamenti e non si fa trovare, tenendomi in cammino verso una meta sempre nuova. Mi invita ad un “faccia a faccia”, ma, allo stesso tempo, posso guardare solo di spalle. Mentre mi parla, si nasconde e tace. Quando credo di averlo perduto, semina tracce lungo il cammino.
Il Dio in cui credo è un Padre che mi attende sulla soglia della vita; la carezza che mi ridona vigore quando, ferito ai bordi della strada, la stanchezza prende il sopravvento sul desiderio del viaggio; l’amico che mi sorprende nel deserto della banalità o nel grigiore della routine; il mare illimitato di vita rispetto al quale sento di essere solo una piccola isola e verso cui approderò, colmando finalmente la struggente nostalgia che accompagna i miei giorni.
Il Dio in cui credo è umano, umile, fragile e innamorato. Non è un freno per la mia gioia, ma un colpo d’ali e di vento per le vele della mia barca.
Credo in Dio che, “creandomi”, mi ha dotato di una dignità inviolabile, radicata nel cielo e, dicendo sì alla mia vita, mi offre la possibilità di vivere in pienezza la mia umanità.
Credo in Dio che opera e agisce nella mia vita, restando al mio fianco come il pastore che si prende cura del suo gregge, curandosi di me e facendomi procedere nella serenità e nella pace dei prati verdi, anche in mezzo all’oscurità delle tempeste della vita. Se mi perdo, egli viene a cercarmi perché il mio nome è tatuato nel palmo della sua mano e al centro del suo cuore.
Credo in Dio, un Padre dai tratti materni che infonde sicurezza e vicinanza, ma anche tenerezza e fiducia: nelle sue braccia posso starmene sereno, come un bimbo svezzato in braccio a sua madre.
Credo in Dio e nel roveto ardente della Sua presenza anche nel tedio di un’esistenza rassegnata e mediocre che però può essere illuminata e purificata dalla luce e dal calore che da Lui promanano.
Credo in Dio, roccia di salvezza che fa scorrere in me una sorgente inesauribile di amore, di forza e di desiderio di bene.
Ma soprattutto credo nel Dio di Gesù Cristo.
Credo nel Dio di Gesù che si prende cura perfino dei capelli del mio capo. Non solo mi viene a cercare quando sono smarrito, ma mi attende sulla soglia di casa scrutando l’orizzonte con nostalgia e con le braccia spalancate.
Credo nel Dio di Gesù, che è amore, bontà e misericordia. Non solo si china sulle mie ferite, ma si offre e si spende per me, fino a morire sulla croce.
Credo nel Dio di Gesù, che ha viscere di compassione per le ferite dell’essere umano e che lotta con tutte le sue forze perché nessuno si perda e tutti abbiano la vita in abbondanza.
Credo nel Dio di Gesù che non ha nessun tratto malvagio o demoniaco, in quanto inequivocabilmente interessato al bene degli umani e mai indifferente alla loro sorte.
Credo nel Dio di Gesù che inaugura il suo Regno, cioè il suo progetto d’amore, come promessa di grazia e di salvezza per tutti, speranza dei poveri e dei peccatori. Un Regno annunciato con un linguaggio poetico e insieme enigmatico, che svela e nasconde allo stesso tempo e, così, genera una spazio vuoto che mi costringe a pormi delle domande, a cercare il senso, a impegnarmi in prima persona per testimoniarlo e renderlo presenti qui ed ora.
Credo nel Dio di Gesù che guida la storia con provvidenza, raccoglie nelle sue braccia la vita di ogni creatura, conosce le mie necessità prima ancora della mia richiesta, mi regala forza e coraggio, risvegliando la speranza del domani anche a chi ha imboccato il tunnel dell’assurdità e dell’oscurità.
Il Dio che Gesù di Nazaret mi ha rivelato e nel quale io credo non abita freddi concetti razionali o verità concettuali esterne a me, ma fa dello scorrere anonimo e silenzioso del fiume dei miei giorni il luogo dell’incontro con la sua rivelazione.
Il Dio narratomi da Gesù posso trovarlo nel sorgere del giorno, nella gioia di una festa di nozze, nella fragranza del seme del campo, nell’allegria di una donna che la ritrovato la moneta perduta, nelle gemme di primavera che spuntano sugli alberi, nel contadino che semina o nel vignaiolo che pianta, nella storia comune di un padre e di due fratelli, “la più bella avventura” mai raccontata.
Il Dio che Gesù ha tratto dall’oscurità e nel quale io credo è un Dio amante di una giustizia spiazzante, che si traduce nel dare la stessa quantità di monete all’operaio della prima come dell’ultima ora.
Credo nel Dio di Gesù che abita le profondità del mio essere, facendo di me un piccolo rivolo d’acqua nel mare infinito del suo amore di Padre dal cuore di Madre che non cerca servi, ma figli e figlie.
Io credo solo nel Dio di Gesù Cristo. Il Dio della tenerezza, che muore d’amore per me e per tutti.
Andrea Lebra